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Silvana Planeta

DA BANCARIA PER CASO
A CASALINGA PER SCELTA
Autobiografia di una
rivoluzionaria del XXI secolo



Alla mia famiglia,
ai miei amici vicini e lontani,
a tutti quelli che hanno popolato
la mia esistenza, fermandosi nel mio universo come fulgide stelle o attraversandolo come rapidi meteore,
ma soprattutto a mio padre che occupa ed occuperà sempre un posto speciale
nel mio cuore e nei miei pensieri.


PREFAZIONE
L’amore che nutro per la saggezza popolare mi ha spinto ad avventurarmi in un campo minato da cui spero di uscire degnamente agli occhi dei miei lettori. Mi spiego meglio: i proverbi hanno la capacità unica, inimitabile, di riassumere in poche parole un’intera filosofia di vita e, quindi, a pensarci bene, riflettono la personalità di coloro che vi fanno ricorso. Ecco il motivo per cui ho deciso di inserire qua e là nella narrazione della mia vita proverbi in lingua italiana o napoletana, che ho provato a commentare nella speranza di non risultare eccessivamente bacchettona.
L’intento è stato semplicemente quello di offrire modesti spunti di riflessione a chi avrà la pazienza di leggermi, nella certezza che nisciun (prima fra tutti la sottoscritta) nasce ‘mparat.
Parallelamente, nella narrazione, ho affiancato ai proverbi la descrizione di persone o luoghi a me cari che ho cercato di tratteggiare in maniera breve, ma incisiva, in modo da trasmettere al lettore una sorta di istantanea.



CAPITOLO 1
Vengo alla luce nel 1967
Vengo alla luce nel 1967 a Napoli, in un mese che adoro, poiché nel mio immaginario è sinonimo di gioia e rinascita: il mese è maggio, il giorno 24, l'ora le 5 del mattino.
Nasce, dunque, una Gemelli ascendente Gemelli, una vera macchina da guerra, per chi se ne intende, in fatto di comunicatività, vivacità di espressione, velocità ed agilità del pensiero, ma anche in fatto di volubilità, impulsività, irrequietezza. A tutto ciò si aggiungano i natali a Napoli con origini siciliane (il mio bisnonno Diego era un barone dedito al gioco e alle donne, costretto, per avverse fortune, a lasciare la Sicilia e a trasferirsi nella città partenopea) e il piatto è servito...
La mia infanzia e la mia adolescenza trascorrono in maniera relativamente tranquilla, circondata dall'affetto dei miei genitori, Enza e Diego, e in compagnia dell'allora inseparabile sorella Daniela, più grande di due anni e mezzo.
Tuttavia, nonostante la normalità dei primi anni della mia esistenza, ricordo in maniera vivida come sin da piccolissima mi appartassi nella stanza dei miei per guardarmi allo specchio, chiedendo ad alta voce a me stessa perché non mi fosse consentito uscire da sola per farmi una passeggiata.
La domanda che sin da allora mi ponevo è emblematica del mio modo di essere: rivela come, già in tenera età, fossi una rivoluzionaria in erba, pur mascherando perfettamente questa mia indole sotto il coriaceo strato dell'educazione e del senso del rispetto impartitimi dai miei genitori.
A quei tempi ancora non sapevo che a distanza di qualche
anno la rivoluzionaria sarebbe scesa in campo per reclamare le sue legittime pretese e che, contro tutto e tutti, le avrebbe ad ogni costo soddisfatte.
Continuate a seguirmi e scoprirete come, con una buona dose di caparbietà e, perché no, con un pizzico di follia, sbarazzarsi dei vecchi panni per vestirne di nuovi sia un gioco da ragazzi!


DANIELA
In qualità di unica sorella, peraltro maggiore, Daniela ha da sempre rappresentato per me un esempio da seguire e da imitare.
Bravissima a scuola, bruciò tutte la tappe, laureandosi in Pedagogia a soli ventidue anni. A ventitré era già vincitrice di concorso come insegnante alle scuole materne e da allora la sua è stata una carriera inarrestabile. Macinando concorsi su concorsi, al punto che, per la sua determinazione, mio padre la definiva ‘la tedesca’, ha insegnato in scuole di ogni grado ed ancora oggi i suoi vecchi alunni, ormai giovani uomini e donne, si ricordano con ammirazione della Professoressa Planeta.
Attualmente è docente di Lettere presso un Liceo Scientifico in provincia di Avellino.
L’insegnamento è la sua grande passione, tanto da aver elaborato un metodo didattico del tutto personale, capace di trasformare anche le capre in teste pensanti.  E, al giorno d’oggi, avere un’insegnante come lei è paragonabile ad una vincita al Superenalotto.
Per farvi comprendere quanta passione metta nella sua professione e quanto i ragazzi percepiscano la sua dedizione, vi racconto un episodio riportatole da una sua allieva: la ragazza in questione, che normalmente dorme sonni tranquilli, una notte ebbe un incubo accompagnato da urla e pianti che svegliarono tutta la famiglia, incluso il padre che, a detta della giovane narratrice, non si era mai alzato di notte prima di allora.  Cosa poteva aver scatenato un tale panico e turbamento? Ebbene, la ragazza aveva sognato che il preside la spostasse in un’altra sezione e che, pertanto, Daniela non fosse più la sua insegnante.
Esimia Professoressa Planeta, se non esistessi dovrebbero inventarti! Ci riuscirebbero? Mah!


CAPITOLO 2
L'inizio della metamorfosi
La rivoluzionaria in erba era una bambina di quattro, massimo cinque anni, per quello che la memoria mi consente di mettere a fuoco, e che il  suo papà, Diego, era solito chiamare semmenzella (traduco per i lettori non napoletani: dicesi semmenzella il chiodino usato dai calzolai, da cui il famoso detto Quanno nun site scarpare, pecché rumpite 'o cacchio a 'e semmenzelle?, ma, nel mio caso, trattasi, ovviamente, di un vezzeggiativo con cui mio padre mi appellava e che sta a significare una cosa piccola). Per quanto fossi, per l'appunto, minuta, ero tuttavia, fin da allora, animata da una volontà ferrea che, non avendo sempre modo di manifestarsi, date le  (giuste) imposizioni e regole di Casa Planeta, rimaneva pazientemente in attesa, fiduciosa che il domani le avrebbe prima o poi arriso.
Con il passare degli anni, la piccola guerriera cresceva e reclamava le sue ragioni in maniera via via più impellente, ma, avendo a che fare con un padre napoletano di origini sicule, l'impresa era ovviamente irta di perigli e quanto mai delicata. Bisognava agire di astuzia. Occorreva trovare validi e fidi alleati. Infine, com’è facile intuire, fu il cuore di mamma Enza a sostenere le mie ambizioni e le mie aspirazioni di giovane donna. Lavorammo il nemico ai fianchi, con un'opera di persuasione degna del miglior diplomatico che si possa immaginare, con una costanza e una pazienza paragonabili solo a quelle di un Certosino e, alla fine, anche il più ostinato e conservatore dei genitori (ti voglio bene, papà!) dovette capitolare.
All'età di diciannove anni partivo per Siena per frequentare la sola Facoltà universitaria all'epoca non presente a Napoli, Scienze Economiche e Bancarie, unico motivo per cui mio padre aveva acconsentito alla mia dipartita ed unico motivo per cui quella Facoltà era stata da me scelta. Il sogno di sempre, quello di volare libera, finalmente si  avverava, proprio nella città che sin da ragazzina, per non so quale motivo, avevo percepito come la più congeniale alle vibrazioni più recondite della mia anima: Siena, Siena, Siena!
Il mio desiderio di cambiare pelle era troppo forte, incontenibile, e Napoli, la mia città, non era il luogo adatto alla metamorfosi...


CAPITOLO 3
Siena, mon amour
Correva l'anno 1986 e Siena era lì, generosa, in attesa di accogliermi nell'abbraccio caldo e dorato delle sue colline di fine estate. La mia eccitazione era alle stelle, ma, al tempo stesso, essendo molto legata alla mia famiglia, paventavo il momento del distacco. La mia prima sistemazione, per volere di mio padre, fu presso un collegio femminile gestito dalle Suore Stimmatine, dove rimasi fino alla primavera successiva e dove conobbi molte delle amiche della parentesi senese a cui sarei rimasta più legata.
Rammento che la prima notte fui travolta da un tumulto di sensazioni inattese e di pensieri agitati: ero sola, nel nulla del buio e del silenzio più profondi, eppure l'ebbrezza della libertà sopraffece la paura ancestrale della separazione e della solitudine. Il mio stato d'animo andò progressivamente e rapidamente migliorando: tutto quello che mi circondava mi infondeva energia e si rivelava a poco a poco proprio come me lo ero immaginato.
Siena era un piccolo gioiello da scoprire e da rimirare in punta di piedi, e tutto questo mi scaldava il cuore, facendomi sentire un tassello unico di quel meraviglioso mosaico. Ero convinta che anche la città avesse un'anima e che questa vibrasse esattamente con le stesse frequenze della mia anima. Se ammiravo un albero secolare che da tempi immemorabili faceva compagnia ad una basilica o ad un convento, mi sentivo come la linfa di quell'albero; se in primavera mi sedevo all’aperto, sorseggiando un cappuccino e leggendo un buon libro, mi sentivo un tutt'uno con la brezza leggera che dispettosa  mi arruffava le pagine e con il  tiepido sole che mi intorpidiva i sensi.
Insomma, a distanza di quasi tre lustri la piccola guerriera cominciava finalmente ad assaporare la libertà.


CAPITOLO 4
Il tiepido rifugio dell'anima
L'innamoramento con Siena è stato così coinvolgente che ho percepito l'intero periodo della permanenza in Toscana come una vacanza, anziché come il soggiorno precario di una studentessa fuori sede.
All'epoca ero ancora molto giovane e senza alcuna esperienza di vita vissuta al di fuori delle rassicuranti mura domestiche. Mi affacciavo a questa nuova dimensione della mia esistenza con la stessa esitazione, ma, nel contempo, con la stessa gioiosa incoscienza con cui un bambino muove i suoi primi passi. Ero affamata di conoscere, vedere, scoprire, ammirare tutto ciò che mi circondava, ma la mia imperizia spesso si frapponeva in questo tumultuoso moto dell'animo e lo frenava come a dirgli "Ehi, basta adesso! Stai correndo un po’ troppo..." E allora quella parte di me, che per tanti anni avevo tenuto sopita e che adesso finalmente cominciava ad affacciarsi alla luce, si ritirava nella penombra, in attesa di prendere sufficiente coraggio e di rituffarsi nella travolgente corrente della vita, con rinnovata vigorìa e un pizzico di fiducia in più.
I giorni passavano veloci, presa com'ero dalle mie nuove occupazioni. Lo studio assorbiva buona parte della mia giornata, ma non mancavano mai le pause dedicate alle chiacchiere e alle confidenze con le  amiche e compagne di avventura. Così come, non mancava mai il tempo, generalmente prima di dormire,  dedicato all'introspezione, momento prezioso che aspettavo con impazienza e che mi preservavo come il più raro dei doni.
L'intima complicità con Siena venne coronata dalla decisione di mio padre di acquistare un piccolo appartamento in centro, cosicché io potessi sentirmi davvero a casa. E fu proprio così.
Mio padre mi diede piena fiducia, delegandomi la ricerca dell'immobile, e si raccomandò di ponderare bene la scelta, optando per ciò che mi fosse risultato davvero congeniale. Tramite un'agenzia immobiliare, ne vidi parecchi, ma come sempre mi accade, la scelta ricadde su ciò che vibrava delle mie stesse emozioni. Forse vi sembrerà pazzesco, ma vi assicuro che anche le cose sono capaci di parlare ai nostri cuori, a tal punto da poterci emozionare o estasiare per il solo fatto di essere, pur nella loro apparente assenza di vita. Ed è esattamente ciò che accade a me quando, alla fine di una serie di gradini interminabili e sconnessi, all'interno di un edificio fatiscente del centro storico, mi apparve la più graziosa delle dimore, composta da due stanze, un cucinotto, un bagnetto, un ripostiglio e, dulcis in fundo, un balconcino con vista mozzafiato sulla campagna senese.
L'innamoramento era scattato ancora una volta e, nel giro di qualche settimana, l'appartamentino fu mio, o, meglio, cominciammo ad appartenerci a vicenda...
Da quel momento c'erano tutti i presupposti affinché il mio spirito controcorrente cominciasse a forgiarsi a suo piacimento: di giorno lo accoglieva il caldo abbraccio della città, a cui gridava il suo canto libero, e di notte, al sorgere della luna, lo ritemprava,  in un abbraccio altrettanto caldo, il tepore del suo rifugio sospeso sulla campagna argentata.


CAPITOLO 5
Caro Babbo Diego…
Il delizioso appartamentino era per me un rifugio in quanto, benché il mio spirito libero mi portasse spesso ad allontanarmi da Siena, era sempre lì che desideravo tornare, in quella casa: i miei viaggi e i miei spostamenti, via via più frequenti dopo la laurea, mi svelavano ogni volta nuove destinazioni, dove mi impregnavo di colori, sapori, suoni fino ad allora sconosciuti e che davano nuovo nutrimento alla mia anima assetata di sapere e scoprire. Più che un viaggio verso una località fisicamente identificata da una latitudine e una longitudine ben precise, si trattava sempre ed innanzitutto di un viaggio alla scoperta di me stessa, dei miei limiti e delle mie paure, ma anche della mia intraprendenza e della mia istanza di libertà. Era come guardarsi allo specchio senza veli e chiedersi “E adesso, sei davvero pronta ad andare oltre?”. E’ questo il motivo per cui molti dei miei viaggi, sia verso destinazioni vicine che lontane, li ho intrapresi in totale solitudine, accompagnata solo dalla mia macchina fotografica, una Olympus OM 20 regalatami da mio padre e che ora apparirebbe come la trisavola delle moderne macchine digitali. La cosa straordinaria è che non mi sentivo mai sola, poiché sapevo rendere familiari in qualche dettaglio più o meno significativo tutti i luoghi che visitavo, in modo da sentirmi sempre a mio agio. Ma la realtà era che spesso ripetevo fra me e me “Male che vada, hai sempre te stessa!” e, dunque, riuscivo a bastarmi anche lontana dalla mia casa e dalla mia famiglia, anche in un luogo dove la gente non parlava la mia stessa lingua e mi era totalmente estranea.
Tuttavia, persino un’amante dei viaggi così singolare prima o poi palesa il bisogno di un dato stabile, e, per me, come già detto, il punto di riferimento si incarnava nella mia casa, dove era dolce ritornare, riabbracciata dal tepore degli oggetti a me così cari.
L’arredamento era stato scelto dai miei genitori: in parte si trattava di mobili acquistati sul posto, in parte di mobilia soverchia proveniente da Napoli. I miei ci tenevano che non mancasse nulla e quindi avevano dotato la piccola dimora di tutto ciò che potesse necessitarmi. Via via provvedevano ad acquistare le altre piccole suppellettili che inizialmente erano sfuggite al loro meticoloso equipaggiamento. Generalmente, si dedicavano a quest’occupazione il fine settimana, quando, a settimane alterne, venivano a trovarmi a Siena. Mio padre era un tipo formidabile, spassosissimo, dal cuore generoso e dagli occhi blu mare. Era un napoletano verace e non sapeva, né voleva, contenere questa sua peculiarità. Vi racconto un aneddoto che riassume magistralmente lo spirito sagace e dissacratorio di quest’uomo meraviglioso: per l’appunto durante una delle perlustrazioni senesi dei miei genitori, alla ricerca di qualche oggetto casalingo mancante all’appello, i due entrarono in un negozio in pieno centro per acquistare un mestolo. Voi sapete cos’è un mestolo, vero? Ma quando mia madre ne chiese uno al commerciante, questi, con chiaro accento senese, affermò reiteratamente di non capire di cosa si trattasse, con l'intento evidente di mettere in imbarazzo la povera donna. Mio padre non si fece passare la mosca sotto al naso, come suol dirsi, e, con chiaro accento napoletano, tuonò: “Ha parlato ‘o frate ‘e Dante Alighieri! Uè, fa’ ampressa, damme nu coppino!” (traduco: “Ha parlato il fratello di Dante Alighieri! Dai, fai presto, dammi un mestolo!”), al che il tipo, paonazzo in viso, si diresse trafelato a fornire quanto richiesto e non si permise più di proferire verbo.
Per non parlare di quella volta in cui attendevamo il tecnico della caldaia per una messa a punto, ovviamente anche lui senese doc. Ebbene, il tecnico era un omone simile nelle fattezze al Brutus di Braccio di Ferro: testa piccola, tonda, pelata e luccicante come un uovo, incassata in un ammasso informe di grasso, che tentava, ansimando, di scalare gli interminabili gradini sconnessi, per avere infine ragione della dolce dimora. Quando il tipo, tutto sudato e rosso in viso, fece la sua comparsa dall’ultima rampa di scale, più morto che vivo nel suo tutone blu elettrico, come pensate lo accolse mio padre? Con un sorrido apparentemente ingenuo, in puro slang napoletano, pronunciò queste precise parole: “Uè, ma a Voi vi piacciono ‘e maccaruni, eh?” (traduco “A Lei piace la pastasciutta, vero?”), con chiaro riferimento alla sua mole. Ovviamente, il poverino, già tramortito dall’arrampicata tutt’altro che agevole, gli rivolse uno sguardo imbambolato e supplichevole al tempo stesso, come a dire “Cosa vuole costui da me? Non vede che ora avrei bisogno soltanto di una massiccia dose di ossigeno?” Tutto ciò sotto gli occhi a metà tra l’incredulo e il divertito di mia madre, di mia sorella e della sottoscritta che dovette fare uno sforzo non indifferente per trattenere una fragorosa risata.
Potrei raccontare tanti altri aneddoti del caro Babbo Diego, ma abbiamo ancora molta strada da percorrere insieme e le occasioni non mancheranno.
Vorrei solo precisare che in questo suo modo di fare non c’era mai cattiveria gratuita o intenzione di offendere, ma solo una vena bonariamente canzonatoria, volta, per lo più, a creare un’affinità con le persone che avevano la fortuna di incontrarlo. Era semplicemente il suo modo di essere Diego Planeta, unico al mondo nel suo genere!
Così come vorrei precisare che, a prescindere dagli episodi narrati, ho una grandissima stima dei senesi. Dovunque sono presenti le due facce della medaglia, il buono e il cattivo, il bianco e il nero, per cui, allo stesso modo, potrei raccontare tanti altri aneddoti in cui il popolo senese ha dimostrato tutta la sua generosità ed ospitalità.


CAPITOLO 6
La luna nel pozzo
Dicette ‘o pappice ‘nfaccia  a noce: damme tiempo, ca te spertoso
La pazienza e la perseveranza sono valori che un po’ tutti abbiamo immeritatamente accantonato, frastornati e strattonati come siamo dalla frenesia dei ritmi quotidiani. Ma, se concediamo solo qualche minuto ad una intima riflessione, sarà facile comprendere come pazienza e perseveranza sono il naturale nutrimento di una maggiore fiducia in noi stessi, altro valore che i modelli imposti dalla moderna società tendono in maniera subdola, ma scientificamente calcolata, a spicconare progressivamente. Si dice che la pazienza è la virtù dei forti e, se ci pensate bene, persevera colui che è fiducioso, se non sicuro, di raggiungere la meta che si è prefissato. Dunque, allenate la vostra mente e il vostro spirito nella palestra di queste antiche virtù e sarete sorpresi dal constatare come anche poca pratica sia in grado di dare frutti inattesi e corroboranti.
Nel 1992, dopo sei anni di onorata frequenza universitaria, conseguii a pieni voti la laurea in Scienze Economiche e Bancarie, discutendo una tesi in Economia Ambientale. La sua preparazione ed elaborazione furono un parto indolore, anzi, direi, un piacevole impegno quotidiano che mi portava in giro tra biblioteche e centri di ricerca specializzati in materia. Provvidi personalmente alla sua battitura e stampa, servendomi di una stampante ad aghi di primissima generazione (oggi antidiluviana), di cui ricordo ancora il metallico rumore a scatti.
Ma poiché la laurea significava la fine della mia vacanza in Toscana, pensai bene di prolungare gli studi, iscrivendomi ad un corso di specializzazione, della durata di due anni: altri settecentoventi giorni di respiro, durante i quali avrei dovuto inventarmi qualcosa di nuovo per allungare il brodo!
Da buona Gemelli refrattaria alla monotonia, scelsi una specializzazione che nulla aveva a che fare con la materia della mia tesi di laurea. Si trattava di una specializzazione in Amministrazione Pubblica, dunque di taglio essenzialmente giuridico che, capirete bene, si incastrava ben poco con la mia formazione prettamente economica. Il motivo di questa scelta vi sembrerà pazzesco, ma, per un animo sensibile al bello come il mio, fu determinante la sede dove si sarebbero svolte le lezioni, due volte alla settimana, per un biennio. Si trattava di una villa rinascimentale, Villa Chigi Farnese, immersa nel verde della campagna senese, poco distante dalla città e a cui si accedeva tramite una strada a sterro di un paio di chilometri.
Lo spettacolo che si aprì dinanzi ai miei occhi, quando mi recai sul posto per un sopralluogo, fu indescrivibile: rimasi letteralmente rapita dall’aura che circondava non solo la splendida villa, ma l’intero complesso cinquecentesco. Era come se il tempo si fosse cristallizzato e tutto fosse immerso in un’immobilità surreale. Le armoniose linee rinascimentali dell’edificio avrebbero incantato anche il più distratto dei visitatori, alla stregua di un’ammaliante sirena, fluttuante dinanzi ad ignari navigatori.
Il paesaggio circostante emanava esattamente la stessa energia: la villa era circondata da querce, tigli e castagni secolari che in autunno emanavano un inebriante umore di sottobosco e in primavera esplodevano in una sinfonia di vivido fogliame e odorosa fioritura. Non era raro scoprire di giorno i segni del passaggio notturno di qualche abitante del bosco, come, ad esempio, le impronte lasciate da una famiglia di cinghiali o i lunghi aghi di un istrice che, nel mio immaginario, doveva averli persi lisciandoseli al chiaro di luna.
Ma l’elemento più affascinante di questo incredibile scenario era senza dubbio il pozzo in pietra che se ne stava al centro del cortile, a rimirare da secoli l’antica dimora. Mi piaceva pensare che quel pozzo fosse un guardiano imperituro, nel cui fondo, sotto il riflesso della luna, si celava un accesso segreto alle fondamenta della villa, dove essa nascondeva a sguardi  profani il mistero della sua eternità.

MARIA ROSARIA
Per accedere alla frequenza della Scuola di Specializzazione per Funzionari e Dirigenti Pubblici, era obbligatorio superare un esame di ammissione, consistente in una prova scritta ed avente ad oggetto nozioni  per lo più di diritto pubblico.
La prova venne fissata presso un’aula della Facoltà di Scienze Economiche e Bancarie. Non rammento esattamente la data, ma doveva essere il principio di ottobre del 1992. Eravamo una ventina a concorrere e ricordo che i banchi erano stati disposti a formare un quadrilatero. Su uno dei lati, proprio quello che si parava di fronte aprendo la porta dell’aula, era seduto il direttore della Scuola di Specializzazione, nonché professore ordinario di Diritto Pubblico presso la stessa Facoltà. Alle sue terga, con una mano poggiata sulla spalliera della poltrona in pelle in cui era accomodato il professore, si affacciava per metà la figura di una donna minuta, sulla cinquantina,  dagli occhi vispi e dal sorriso sincero. Non sapevo perché fosse lì,  eppure, dal momento in cui i nostri sguardi si incrociarono, si sprigionò una strana alchimia. Il caso volle che, durante la prova, fossi seduta proprio di fronte a quella magnetica creatura. Vi sembrerà incredibile, ma per tutto il tempo, avvertii la chiarissima percezione che lei stesse lì per un motivo ben preciso, ossia per accompagnarmi in quella prova e vegliare su di me. Era come se quella mano, poggiata sulla spalliera ad un paio di metri di distanza, fosse in realtà sulla mia spalla e mi trasferisse calore e serenità. Questa sensazione era così forte e penetrante che non potevo esimermi, di tanto in tanto, dal sollevare gli occhi dal foglio per cercare i suoi.  E, immancabilmente, lei era a lì, a guardarmi dolcemente. Mi sembrava (ma forse questa era solo una mia percezione) quasi sul punto di piangere, tali erano la gioia e l’energia che si sprigionavano ogni volta che stabilivamo un contatto.
Superai la prova e, solo con l’inizio dei corsi, nel gennaio del 1993, scoprii l’identità di quell’angelo. Ricopriva la funzione di segretaria della Scuola ed indovinate un po’ di dov’era? Di Napoli, un’altra magica coincidenza! Il suo nome aveva un suono antico e rassicurante, proprio quello che istintivamente le avrei attribuito pur non conoscendola: Maria Rosaria.
Al nostro primo incontro presso Villa Chigi Farnese, le poche parole che ci scambiammo confermarono in pieno la reciproca affinità e suggellarono l’inizio di un’amicizia e di una complicità senza tempo.
Durante l’intera parentesi senese, questa donna è stata presente nella mia vita ogni giorno, sostenendomi nei momenti tristi e rallegrandomi in quelli più lieti. Trascorrevamo ore intere a raccontarci di tutto e il suo linguaggio, generalmente così compìto, in mia presenza riacquistava tutto il brio e l’incisività del dialetto napoletano.
Devo tanto a questa piccola grande donna, piccola nelle fattezze, ma grande nella bontà d’animo e nella generosità.
Le devo una valanga di risate, tanti insegnamenti di saggezza antica, molteplici esempi di magistrale
conduzione della casa, ma soprattutto le devo la rivelazione di un inestimabile segreto: una superba ricetta del babà che farebbe invidia alla migliore delle pasticcerie napoletane e che io riproduco ogni volta con assoluta fedeltà.

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